Con l’avvicinarsi del 5 novembre gli USA sono ad un bivio: ecco perché 63 anni fa, nel discorso d’addio, Eisenhower profetizzò accuratamente il futuro non solo del proprio paese, ma del mondo intero, e forse avremmo dovuto ascoltarlo più attentamente.
“Il potere corrompe chi non ce l’ha” avrebbe detto Giulio Andreotti, storico capo DC e Capo del Governo per ben sette volte. E per ben due volte la leadership statunitense ne è diventata l’esempio concreto. Alla fine della presidenza duplice di Barack Obama nel 2017 sembravano non esserci candidati autorevoli per continuare alla guida del paese più influente e potente del pianeta, fino a quando il profilarsi di Donald Trump (celebre magnate e businessman) e Hillary Clinton (vecchia conoscenza di famiglia), rimescolò le carte in gioco inaugurando quel che in Europa arrivò silenziosamente con la fine della Guerra Fredda. Da una parte un outsider e dall’altra qualcuno ben cosciente dei giochi di potere (Robert Byrd, senatore democratico e suo mentore aveva militato in gioventù nel Ku Klux Klan).
Dopo l’acclamata quanto criticata presidenza Trump e l’elezione di Joe Biden la situazione in materia internazionale e la credibilità sono ai minimi storici (per non parlare della gestione Covid e degli attentati di quest’estate e autunno tutti falliti). Perché questo? Certamente avere molteplici fronti aperti non aiuta (Mar Cinese Meridionale, Ucraina, Palestina, Africa e quello più importante del giardino di casa) sia dal punto di vista strategico che politico ed economico. Ma quel che più preoccupa è l’ossessione eterna per la guerra e la volontà di supremazia unipolare propria non solo dei presidenti, semmai quanto più di quello che Eisenhower definì complesso militare-industriale che mai si stanca de facto di lucrare e parassitare sulle vite dei suoi stessi concittadini e non solo.
Nel discorso d’addio del 17 gennaio 1961 (durato 15 minuti) quattro furono i punti chiave enunciati: il ruolo degli USA nel mondo, il pericolo del comunismo, la comunità internazionale e la minaccia del complesso. Andando ad esaminarli uno per uno, nonostante si trattasse di un’altra epoca, si possono trovare dei punti in comune: gli USA avrebbero dovuto fare a meno dell’arroganza sebbene avessero un potenziale politico-militare di gran lunga superiore; la Guerra Fredda non era contro la Russia nello specifico ma contro un subdolo sistema sovversivo, la comunità internazionale avrebbe dovuto ricercare la pace e l’equilibro cercando di limitare situazioni di panico e suscettibili all’odio reciproco e, infine, il ruolo centrale dello stato profondo che non disdegna l’utilizzo della misinformazione, disinformazione e pressione psicologica per portare i propri cittadini a credere false o condizionate verità sul nemico. A tal proposito Charles D. Jackson (1902-1964) colonnello e consulente governativo per la guerra psicologica, sostenne di poter vincere la Terza Guerra Mondiale senza sparare un colpo proprio grazie all’influenza della propaganda e del terrorismo psicologico sperimentati sui cittadini.
Inoltre veniva gettata luce sul pericolo di una società impreparata intellettualmente (e perciò manipolabile) che si dedicasse esclusivamente al vivere del breve periodo, sprecando i beni faticosamente acquisiti ceduti in eredità ai figli e sul fatto che la scienza potesse tramite compenso pubblico scivolare verso la corruzione e l’ego smisurato, anticamere queste di una politica prigioniera delle élites scientifico-tecnologiche.
Inutile concludere dicendo che, da buon generale a cinque stelle molto preparato, tali avvertimenti siano caduti uno dopo l’altro nel dimenticatoio e le guerre per la supremazia globale siano continuate senza grandi intoppi per poi non avere risvolti pratici nella concordia ed equilibrio mondiali.