Il cantante Lazza propone l’inedito Cenere, un brano non solo orecchiabile, ma ricco di spunti culturali.
Una storia d’amore ormai giunta al capolinea, la lenta evanescenza dell’affetto reciproco, una relazione che non ha più speranza tanto da assumere la consistenza della cenere. E’ proprio “Cenere” il titolo del brano del rapper Lazza, classificatosi al secondo posto nella settantatreesima edizione del Festival di Sanremo.
Il cantante apostrofa la sua amata ricordandole la vanità del loro sentimento, che è sfocato e confuso come pezzi di vetro. Il peso della sofferenza porta l’amante a desiderare di sparire come cenere, ripetendolo per due volte. Nel secondo ritornello, però, Lazza paragona la propria donna a Venere, dopo aver auspicato di rinascere insieme come cenere, ovvero tornare a vivere la loro storia d’amore.
Appare ambiguo l’uso del termine cenere che nelle prime due strofe indica la fine del loro rapporto, mentre nell’ultimo caso allude al riavvicinamento dei due innamorati. Il riferimento che traspare è il mito dell’araba fenice, un racconto che affonda le sue radici nel mondo orientale e che giunge nella cultura greca e latina nella prima età imperiale.
Attestazioni dal mondo greco provengono dallo storico Erodoto che, all’interno del secondo libro delle Storie, racconta di aver visto la Fenice solo in un dipinto e, se somigliante a questo, potrebbe avere alcune penne dorate ed altre rosse. L’autore aggiunge che il mitico uccello appare agli abitanti di Eliopoli ogni 500 anni: la tradizione più tarda narra che la fenice muoia ad Eliopoli e rinasca dalle sue stesse ceneri, come simbolo di una notevole tenacia.
È proprio per questo motivo che il poeta Marziale, nell’epigramma 7 del V libro, utilizza la figura della Fenice per indicare l’imperitura potenza di Roma. Il riferimento è alla città che, dopo gli incendi del 64,79 ed 80 d.C, è stata soggetta ad una repentina ricostruzione urbanistica; in particolare, l’autore del carme allude a quella realizzata sotto l’imperatore Domiziano. A suggellare la metafora, vi è la definizione di fenice come avis vivax ed unica, cioè uccello longevo e unico nella sua specie.
Quello della fenice è un mito che ha affascinato anche la corrente poetica preneoterica del I secolo a.C., come ci attesta il poeta Levio, autore di un carme a forma di ala d’uccello.
Dal movimento preneoterico attingeranno i poeti elegiaci, avvezzi a narrare in versi il loro amore infelice. Uno tra questi è Tibullo che dimostra il suo sentimento a Corinna, con l’epicedio all’uccellino di lei: nel testo è menzionata anche la mitica Fenice, come ad indicare l’eternità dell’affetto provato dal poeta. Si tratta dell’ennesima dimostrazione di resilienza, tentativo che lo stesso Lazza vuole mettere in pratica, con il proposito di far rinascere la sua storia d’amore.
Una simile prova di “rianimazione” è tentata anche dalla maga tessala Eritto nel poema “Pharsalia” dell’autore Lucano: Sesto Pompeo, giunto nell’oltretomba, viene a conoscenza del proprio destino attraverso la necromanzia praticata su un defunto. Tra gli ingredienti usati per risvegliare l’uomo, vi sono le ceneri di Fenice deposta sull’altare orientale. Il parallelismo si baserebbe si basa sull’idea che, come il defunto riesce a risorgere dalla morte, lo stesso potrebbe accadere per Lazza e la sua vicenda amorosa.
La relazione potrebbe essere paragonata ad una fiamma (non casuale, date le numerose rappresentazioni iconiche della Fenice nel fuoco) che sta per spegnersi, ma sembra non perdere la speranza di ritornare ad ardere. È la stessa flamma amorosa che vive il poeta Catullo per la sua Lesbia, Cornelio Gallo per Delia, Properzio per Cinzia e la regina cartaginese Didone verso Enea.